Il figlio del Mare, Davide Morosinotto

Ogni viaggio è viaggio a modo suo.

Morosinotto stupisce ancora, cambia tutti gli accordi, stipula nuovi patti. 

Questa volta bisogna camminare, non ci sono onde che portano in volo sul mare, venti che proiettano nei cieli, temporali che trasportano da un tempo all’altro, da un luogo all’altro. Ci sono stracci e bastoni. E camminare gente, camminare. 

A metà libro avevo le ginocchia nodose e ancora mi chiedevo, ma veramente? Veramente devo farmela tutta a piedi, passo passo, con ‘sto tempo lento lento?

Veramente

Sono uscita dalla storia con lo stupore di non essere riuscita a vederla bene in una sola lettura, dopo non ho avuto il tempo di ripetere il viaggio, eppure ancora mi sta attaccata al fianco, e mi chiedo, come scriverne? Si scrive di qualcosa di cui si è compreso forse la metà, di cui non si è ancora colto il succo, non si sa bene come riordinarlo?

Sì, se non si pretende di tirare le conclusioni. D’altra parte il primo volume è l’inizio, potremo passare serate attorno al fuoco a parlarne. E allora ecco un inizio, un modo nuovo di dialogare attorno a un libro. Una condivisione di appunti, domande, ipotesi, pensieri. 

Una foglia su un albero.

Chissà che su quell’albero spuntino altre foglie, altri appunti, domande, ipotesi, pensieri. Chissà.

*

APPUNTI di lettura e spoiler:

… mi affascina il progetto grafico, così concreto in questo romanzo, così materico, legato alla tessitura della storia che è arazzo prima che parola, quindi disegno prima che racconto.

Mi piace il corpo libro, denso, la copertina cartonata ha una caratteristica molto decisa con quel simbolo che dice molto. Sembra graffiato nella roccia, ma anche delineato fisicamente con sassi, elmo e spade, un cerchio a tenere dentro tutto e dare forma al simbolo. 

I risguardi sono un sogno e un racconto, una pagina che si apre e in cui sostare, un tempo storico introdotto che è il tempo del libro.

La “noiosa” introduzione storica mi è piaciuta molto. Interessante e opportuna, agile e ricca di nozioni utili a presentare e decodificare il tempo storico.

Stupenda l’idea del progetto grafico, quel filo che scorre e lega l’ultima parola o punto con l’arazzo, poi prosegue nella tessitura dell’arazzo. Come in altri romanzi di Davide il progetto grafico espande la narrazione.

Gli arazzi non sono solo storia, sono anche movimento, girando le pagine le immagini e la storia scorrono e la narrazione prosegue. Pare di veder muovere sul muro vecchi film, con il proiettore che ronza e le immagini che scorrono in orizzontale nel senso di lettura. 

Ci muoviamo dentro e fuori dagli arazzi, dentro e fuori da immagini e parte scritta, tutto a partire da un filo che scrive o tesse. Non riesco a non sentire la presenza strutturale, il peso e l’umidità di quel tessuto grosso che è l’arazzo, ma anche tappeto magico che ci porta nel viaggio. Un mondo straordinario quando è appeso al muro e ci chiama a varcare il confine per entrare, e un oggetto magico che ci trasporta quando è in orizzontale, come nastro trasportatore. Le immagini portano avanti la storia, non sono decori.

Sto sentendo con forza il modo della narrazione che è fortemente grafica. Il segno usato non pare forte, ma quello che porta come significato lo è. Le parole sfumano e tornano filo, il filo collega le pagine traversandole senza interrompere il flusso, poi si impegna nel tessere l’arazzo, da lì ritorna filo e parola. Un solo elemento, il filo, per raccontare tutto. Un filo lo conoscono tutti, lo padroneggiano tutti, anche chi non sa leggere. Il senso profondo e più forte di ogni forma che prende nella storia è proprio l’elemento filo, che è primordiale, alla portata di tutti. Con quello nella storia si crea ogni forma.

Come si fa a sottrarsi al filo, al flusso di coscienza? Non si fa. Anche per questo sento di scorrere perfettamente dentro la storia, scorro dentro quel piano, parola per parola, punto per punto, filo per filo.

La geografia della storia impronta l’esperienza di lettura. È così reale il viaggio entro cui ci muoviamo che sembra di vedere ogni elemento a stretto giro di sguardo, solo quello che vede il personaggio e solo quello che il paesaggio fa vedere. Colline che diradano, boschi, fiumi, radura, e laguna. La laguna è senza scampo: lenta, primitiva, non è la laguna del 2022, non salta su il Mose, e nemmeno un mostro, non è un fantasy.

 È l’inizio, è il nostro territorio quando era “solo” territorio. Siamo noi come eravamo nel 452 dopo Cristo. Avevamo quelle quattro cose e ce le dovevamo far bastare. 

Che prova ragazzi. Che tempo. Cioè, uno ti fa saltare come pallina del flipper fuori e dentro dai temporali, fabula e intreccio, poi ti molla nel 452 avanti Cristo, ti dà in mano un bastone e ti dice cammina dai, è tutta a piedi da qui in avanti, ci vuol pazienza. Ed è solo il primo volume della saga.

Pag. 64 65, è come scorrere dentro il paesaggio, come fosse un quadro a olio, c’è questo continuo scorrere orizzontale della scrittura che mentre ti fa avanzare dentro il paesaggio pure ti imbriglia.  È uno scorrere diritto senza scampo. Non si può scendere, non si può salire, si può solo chiudere il libro e fuggire, o stare dentro e camminare. 

Mi sforzo di capire questo mondo, e capisco che non c’è nulla da capire, è la laguna che è fatta così: lenta, inesorabile, canneti che non fan vedere oltre, un’esperienza a sé stante.

Mi fa un effetto strano leggere della partenza di Pietro per la guerra, sono dentro il flusso del racconto e quel che accade lì detona nel mio presente. Pare di essere nella storia a camminare con loro. Ho chiuso il libro e sento addosso lo stupore per la sincronicità con cui questo scritto riporta eventi simili a quelli che abbiamo sentito alla radio poche settimane fa: l’invasore che assale una cittadina all’improvviso, i ragazzi che vengono arruolati per la guerra e mandati al fronte senza addestramento né strumenti. Mi pare gigantesca la sincronicità di ciò che è stato scritto tempo fa con il tempo storico in cui appare in libreria.

pag. 196, è molto strano, il viaggio dell’eroe – che qui si fonde con il viaggio dell’eroina – è andare via da casa. Il loro viaggio è tornare a casa, nonostante vengano dissuasi dal farlo. 

E poi, anche ora che tornano i colli e il territorio sono resi creature viventi, come fianchi di animali o teste d’uomini. Sembra che il centro di questo mondo sia casa, forse La Casa.

Ha un passo lungo questo romanzo, il passo più lungo della gamba, si avvicina la fine del libro e la storia ancora si dispiega, con calma.  È un ritmo opposto rispetto alla giostra dei due temporali dove spazio e tempo parevano centrifugati. Il tempo è rallentato, o meglio, ha un ritmo legato alla natura e non c’è nulla che lo fa accelerare. Anche quando non leggo mi pare di essere in viaggio, ed è tutta terra, piatta, e polvere che s’alza o laguna, e il ritmo della storia è quello del camminare a piedi, o scivolare a forza di braccia sul pelo dell’acqua. Il filo che tiene tutto saldo, parola per parola rigo per rigo nodo per nodo non permette di sfuggire a questa esperienza, a questo sostare. Forse, la meta, potrebbe essere imparare a “so-stare”. Dentro qui.

A volte la narrativa è un corpo a corpo con la storia.

Il tempo che scandisce questo mondo, e la natura entro cui si viaggia, sono il personaggio dei personaggi, quasi un guardiano della soglia incarnato. Non si tratta di capire e giudicare, ricondurre a parole – Pietro è silenzioso -, si tratta di entrare nel mood di questo mondo, così diverso dagli altri nella presenza e nel ritmo, e questa è la prova per il lettore. In altre parole: questo mondo ordinario, vissuto da noi ai velocissimi giorni nostri, è un mondo straordinario. Fantascienza degli anni 2000. 

Se penso ai temporali, se penso a “La più grande”, dentro lì il lettore viene trasportato. Che fatica fisica fa il lettore, nessuna, ha la fatica di governare le sue emozioni e non cadere dalla giostra del ritmo, ma in quel viaggio lo porta lo scrittore. C’è il mare che trasporta, il vento, le energie che spostano con la loro forza. In quest’altro mondo ognuno deve fare la sua parte, deve mettersi in viaggio, deve prendere il suo bastone e camminare con le sue gambe. 

Questo lungo viaggio si sente essere una preparazione e una costruzione. Alla fine del primo volume il racconto ha creato le fondamenta per tutto quello che verrà. Con buona pace di altre storie che le fondamenta le posano nei primi due capitoli. Nella lentezza sta il divenire.

Il ritmo lento si accorda con la trasformazione e crescita personale di Pietro che impara le cose giorno a giorno vivendole, in silenzio, osservando, accettando i ritmi e le leggi del clan. E noi con lui. C’è molto tempo per la riflessione in questo romanzo, tipica di Pietro. Caratteristica controtendenza di un romanzo che rallenta, in questo nostro tempo in cui si corre e si divora anche la parola scritta. 

In sintesi, credo che il lettore sia chiamato dentro questa storia a dare qualcosa di sé, che sia messo in condizione di superare una prova: uscire dallo stereotipo di quel che si aspettava e accettare di viaggiare dentro un romanzo denso e reale, spiazzante.

Un altro aspetto interessante è che tutto il romanzo pare scaturire dall’energia dei ragazzi, e ne è intriso. Sono loro i protagonisti e in generale è l’energia adolescenziale che nutre la narrazione. È quella che sostiene il mondo nuovo a cui si giunge alla fine.

Mi piace molto che gli adulti siano marginali nel romanzo. La storia, e la rinascita, è tutta in mano ai ragazzi. Rispecchia moltissimo il need del nostro tempo storico, che nulla ha a che fare con il want delle vecchie figure dirigenziali che tengono in mano il pianeta, cercando di rifondarlo dall’esausto di sé stessi e delle proprie case diroccate.

Nel romanzo i ragazzi non procedono dai padri, c’è un’interruzione nella linea padre e figlio/figlia. I ragazzi rifondano un mondo a partire dal seme che trovano in sé stessi, senza ereditarlo se non, appunto, nella forma di seme. Forse il mondo dei padri viene distrutto proprio per questo: perché i figli possano rifondarlo da un nucleo primordiale e duraturo. È una storia di rifondazione di un mondo.

C’è tanta sincera ingenuità in questi ragazzi, ed è coerente con la storia narrata. È come aria fresca, energia nuova degli inizi, energia creativa. Questo non è un mondo per vecchi. Mi chiedo se i ragazzi e gli adulti vivono questo mondo in modi simili o diversi, se la lentezza di questo mondo si sintonizza sul bisogno dei ragazzi di avere tempo per adattarsi, crescere, fiorire.

Mi piace molto il senso di comunità che permea il viaggiare dei personaggi nella storia, e il modo del femminile che è descritto per quel che era a quel tempo e che nell’esperienza di Giustina e Pietro spesso mostra aspetti diversi legati all’appartenenza sociale. Il personaggio di Giustina è un femminile rispettato dallo scrittore, un femminile che nella storia è protagonista, cresce, non è controfigura o sgabello per altri. 

Penso che questo modo della narrazione sia l’esatto antidoto all’abitudine di divorare libri uno dietro l’altro. Insegna a rallentare, ad aspettare, ad arrivare alla fine e scoprire che il viaggio continua, e bisogna aspettare ancora. Il tempo di trasformare e crescere.

Non è ciò di cui abbiamo bisogno?

*

“Figlio del mare”, Davide Morosinotto, Mondadori

2 pensieri riguardo “Il figlio del Mare, Davide Morosinotto

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