I DELITTI DI WHITECHAPEL, Guido Sgardoli, Massimo Polidoro

Quando mi accosto a un mondo narrativo cerco l’entrata e aspetto che si apra un varco, leggo e pian piano mi inoltro nella trama, mi fermo, torno indietro, cambio il modo dei passi, il ritmo, il respiro, cerco luoghi dove andare. Osservo e ascolto il paesaggio, i personaggi, il movimento; dal risuonare del terreno sento dove sotto è vuoto, potrebbe esserci un passaggio, un pozzo, qualcosa da seguire scendendo, o da tirare su.

Con i delitti di Whitechapel non ho dovuto fare nulla. Ero lì, mi guardavo intorno, ho visto e sentito il sangue sgorgare. Dalla terra. La terra ero io, eravamo noi. Possibile, mi son chiesta, che grattando appena la superficie sia ancora tutto così vivo, così attuale?

A volte mi è difficile trovare parole per traslare quel che sento in un linguaggio accessibile ad altri. Ma in questa storia non c’è nulla da fare, tutto è già fatto. «Mi vien su sangue», ho scritto, e non avevo altro da aggiungere. Sgorga ancora, e non è cambiato niente, niente.

Quando ho visto il trailer di presentazione di “I delitti di Whitechapel” sono rimasta colpita. Mi ha stupito il focus del romanzo, la scelta di raccontare ciò che non viene mai raccontato di questa vicenda: il punto di vista delle donne, la vita e la storia delle vittime.

Il fatto stesso che questi delitti siano universalmente conosciuti con il “nome d’arte” di Jack lo squartatore indica cosa viene sempre messo in luce, chi è al centro del palcoscenico e della trama, cosa prende tutta l’energia e cosa interessa al mondo: l’assassino, che è il soggetto della narrazione, l’icona negativa ma forse no, a guardare bene…

Ricorda Barbablù questo tizio elegante di cui le cronache dell’epoca mitizzano le gesta.

Edward Fairfield, un membro del Governo inglese, dichiarò al Times: «È un bene che queste reiette siano finite nelle mani di un genio chirurgico sconosciuto. L’assassino ha dato il suo contributo alla soluzione del problema di come liberare l’East End dai suoi abitanti dissoluti.»

Difficile stabilire chi più meriti la medaglia di paladino della giustizia: tra l’assassino e l’autorevole rappresentante del popolo, o il popolo stesso, non si sa chi scegliere. D’altra parte della storia di Barbablù quale messaggio ci è rimasto in circolo se non che la giovane sorella se l’è cercata: non l’aveva vista la barba così blu? Non l’avevano dissuasa le sorelle? Perché si è lasciata sedurre dal mostro? Colpa della sua sete di potere e ricchezza. Colpa sua.

Ho deciso che avrei letto “I delitti di Whitechapel”, nonostante avessi timori a riguardo del punto di vista delle vittime scritto da due uomini. Non un pregiudizio, – a volte mi trovo meglio rappresentata da personaggi femminili scritti da uomini che da donne – ma un’attenzione sì: con quale sensibilità potevano aver pensato di aprire le cripte del tempo per lasciar filtrare e dare voce a un femminile straziato, prima, durante, e dopo la morte?

A queste domande hanno risposto il trailer del libro e l’articolo che Guido Sgardoli ha scritto per Repubblica. Invito a guardarli, la discussione attorno a un libro può diventare albero che cresce e si allarga con i contributi di tanti, senza ripetersi dall’uno all’altro.

Leggendo l’articolo seguiamo le tracce lasciate dagli autori nell’immaginare la forma del romanzo, e cosa sono le tracce se non domande?

La domanda che a quel punto ci siamo posti è stata: chi erano davvero le vittime della sua follia omicida? Lo spiega molto bene la storica Hallie Rubenhold nel suo saggio riccamente documentato Le cinque donne (Neri Pozza Editore, 2020). È da questo testo fondamentale che è iniziato il vero viaggio de I delitti di Whitechapel.”

Mi ha rassicurato e ha approfondito il mio sguardo sapere che “I delitti di Whitechapel” si fonda su un saggio di questo genere. Gli autori hanno saputo scovarlo e farne tesoro; queste sono le fonti, storiche, attorno a cui hanno costruito la narrazione.

In “I delitti di Whitechapel” il soggetto del titolo sono i delitti, si sposta il focus dall’assassino alle vittime.

Le vittime erano donne che avevano la sventura di trovarsi per strada, di notte. Si dice prostitute, ma non lo erano, non tutte, e in ogni caso, allora come ora, nessuna bambina cresce col sogno di fare la prostituta. In quei luoghi e in quei tempi qualunque donna non avesse un uomo o una famiglia a mantenerla era reietta, una che non aveva niente di cui sostenersi, una donna di strada.

A ben guardare, per le donne dell’epoca, muoversi per strada era disdicevole di per sé. Non faceva parte dei loro compiti, era bene che si muovessero accompagnate, e più opportuno che se ne stessero a casa. Questo aspetto è ancora oggi centrale nella nostra società: dalla libertà e sicurezza con cui le donne possono muoversi per strada si fotografa il livello di emancipazione della società in cui vivono. È superfluo far notare che la libertà delle donne di muoversi per strada è il primo diritto che viene messo in discussione quando un regime autoritario si reinnesta in uno stato sociale.

Nel 1907 nacque a New York Joseph Campell, di lui ancora studiamo “L’Eroe dai mille volti” edito nel 1949, da cui deriva “Il viaggio dell’Eroe” che è guida per la gran parte delle narrazioni di tutti i tempi. A Campbell un giorno si accostò Maureen Murdock, desiderosa di comprendere il legame tra il viaggio dell’Eroina e il viaggio dell’Eroe. Rimase sorpresa nell’apprendere da lui che «(…) nell’intera tradizione mitologica la donna è lì e deve solo capire di essere la meta che le persone cercano di raggiungere (…)».

Ah.

La donna è meta, non deve mica mettersi in viaggio. Figuriamoci andarsene in giro per le strade. La sposa di Barbablù, per esempio, s’è vista mai andare per strada senza marito o accompagnatori? Figuriamoci. Per liberare il femminile assassinato e nascosto, rimosso alla percezione della società, le è toccato di maritarsi, traslocarsi da casa a casa, e risolvere la faccenda scendendo nelle segrete del castello.

Dunque il viaggio dell’Eroina nella cultura patriarcale non è contemplato: “la donna è meta”, ma anche metà apprendiamo da altre fonti.

Maureen Murdock si risolse a scrivere da sé “Il viaggio dell’Eroina”, di cui la differenza sostanziale rispetto al viaggio dell’Eroe nelle forme identificate da Campbell è nella diversa legittimazione al viaggio: nel maschile è dato per scontato e obbligato, nel femminile il viaggio non è contemplato. Uguali forme archetipiche, viaggi diversi data la premessa che innesca diversamente il concatenarsi delle prove.

A cosa volevo arrivare,

alla consapevolezza di quanto a quel tempo la donna non dovesse trovarsi per strada, per nessun motivo e in nessuna posizione sociale, non era il suo posto (e quanto ancora risuona nel nostro tempo). Attraversare la città per andare da un luogo all’altro era mal visto. Se una donna si trovava sbalzata fuori dal focolare, per malattia, divorzio, abbandono, rifiuto dalla famiglia, morte del marito, la sua vita per strada era inevitabile e marchiata all’origine.

La donna è casa, meta. Non è strada, dice la legge.

In questo romanzo viaggiamo con Sybil per le strade di Whitechapel dalle prime alle ultime pagine. Lo sentiamo in ogni momento, il risuonare dell’essere in pericolo e fuori posto: lo sentono i lettori che si immedesimano nella protagonista, lo sentono le lettrici che si immedesimano in Sybil e nelle mille volte in cui, ancora oggi, hanno paura di camminare da sole per strada.

Eppure Guido Sgardoli e Massimo Polidoro hanno fatto questo regalo alle vittime di Whitechapel e a Sybil che le ha rappresentate: le han fatte viaggiare.

Sybil è l’Eroina che viaggia. Sybil si muove lungo tutto il romanzo nelle fetide e pericolose strade di Whitechapel; Sybil viene continuamente dissuasa dall’uscire di casa e inoltrarsi per la città, ma non smette un secondo di farlo.

Gli autori potevano costruire la narrazione come di consueto: rispettando i codici del tempo e facendo arrivare a Sybil ciò che le serviva, sulla soglia di casa, facendola muovere accompagnata, in carrozza, ritraendola di casa in casa, di salotto in salotto.

Invece hanno trattato l’Eroina come trattano gli Eroi: l’hanno messa per strada, hanno invitato noi lettori a seguirla tra ciottoli dissestati, pozzanghere di lerciume, buio, lezzo e pericoli. Per tutto il viaggio. Fino alla meta.

Di questa storia leggerete tutto quel che c’è da sapere nel libro e fuori. Io ricordo e segnalo il rispetto dato alle donne a partire dalla dignità del viaggio, dalla possibilità e dal coraggio di percorrere le strade del viaggio.

Vedo un valore aggiunto dal narratore maschile a questa storia femminile, nel coraggio di orchestrare per lei strade in cui essere viaggiatrice, protagonista. Eroina in viaggio.

Grazie

“Fortunati sono quegli uomini e quelle donne che nascono in un’epoca in cui è in corso una grande battaglia per la libertà umana.”

Emmeline Goulden Pankhurst

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I delitti di Whitechapel, Guido Sgardoli, Massimo Polidoro, DeAgostini

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