La piazza, Angela Vecchione

Se posso me la filo, faccio finta di niente, scanso. Una storia come questa, non è di quelle che desidero leggere la sera, prima di scivolare nel sonno. Generalmente l’operazione di evitamento va a buon fine, altre volte, mi trovo il libro sul comodino.

La piazza, non “una piazza”. L’intestino del mondo, intestino del corpo unico che abitiamo, chi trovandosi sopra, chi sotto, chi in mezzo. L’intestino è comune, determina il funzionamento dell’intero.

Angela Vecchione mette in piazza l’agorà di Napoli, piazza Garibaldi, ritraendola nella forma e vitalità di fine anni Ottanta, un decennio in anticipo rispetto agli anni di cui lei è testimone. Riporta nella cornice della narrazione dinamiche e personaggi realmente incontrati, li muove ricreando un mondo e un modo difficile da immaginare dall’esterno. Il caos perfettamente organizzato, l’ordine edificato sul disordine. Il buio e la luce, il bene e il male, allacciati inesorabilmente.

È una piazza che così come descritta non esiste più, precedente agli interventi di riqualificazione che hanno disegnato nuovi scenari. Ma, come insegna Rodari in grammatica della fantasia, in qualche modo gli archetipi ricadono sempre nel reale, trasformandosi pur di essere sempre presenti sul palcoscenico del mondo. Sono imprescindibili, l’essenza stessa della vita e delle cose, della vita nelle cose. Non ci sta mostrando, Angela, con questa precisa piazza, un archetipo? La piazza, il centro, il luogo da cui tutto origina e si snoda, ancor meglio rappresentata quando da lì ramificano le vie metropolitane.

È roba nostra questa qua, anche cosa nostra.

C’è chi ci nasce, la vive da dentro. Chi al contrario vive distante e può permettersi il lusso di non sentire e non sapere, non sapere sentire non volere sapere. Un tandem sgangherato che può procedere per lunghi tratti di strada, senza che i ciclisti s’accorgano di essere interconnessi. Ma la separazione è illusione. Prima o dopo si svela l’interconnessione. A volte sale dritta dalla cantina, esattamente quella roba lì, quella che ti beavi di non aver mai visto né incontrato né accettato. Ecco, dritta dalla cantina, la tua dico, la mia.

Interconnessione, degli spazi, delle persone, delle cose. Tutto si muove oltre i muri, ora più che mai, tutto si trasforma replicando pervicacemente la sostanza. Ecco quindi che l’opera di riqualificazione, di dignità, rispetto, accudimento, riparazione e crescita sociale, va immaginata e messa in opera proprio lì dove è più sofferente. Dal punto più basso a partire dal quale si edifica tutto il resto. Alternativa? L’abisso.

C’è equilibrio in questo romanzo tra personaggi maschili e femminili, sia nella presenza, nel numero, sia nelle caratteristiche, nell’interrogazione degli spazi interni, nella ricerca dei sedimenti, delle origini prime, dell’andare sempre oltre la facciata. Racimola memorie, ricerca le origini dei gesti nel vissuto delle persone. Affatto scontato, saper andare oltre gli stereotipi. A maggior ragione in una narrazione di società così fortemente patriarcale.

Mi interrogo spesso sui ruoli effettivi del maschile e del femminile che dietro le quinte delle realtà mafiose portano avanti un’immagine di mondo che crea continuamente se stessa. La partorisce rigenerandola continuamente. Difficile averne chiara percezione da fuori. Difficile tracciarne i contorni, il tessuto vitale, la matrice da cui si generano.

Nel romanzo di Angela non trovo risposte, ma chiari scuri, trasparenze, un andare a grattare oltre la superficie di entrambi. Oltre e dentro l’uomo, oltre e dentro la donna. La dinamica che tesse la piazza, nel suo macrosistema come nel piccolo, così nel romanzo, è la rete familiare.

La piazza, la famiglia al centro.

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La piazza”, Angela Vecchione, Robin Edizioni

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Intervista video su pagina Instagram di Exlibrs20 a cura di Natalia Ceravolo

Intervista a cura di Antonella Russoniello

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