Il ragazzo e la tempesta, Antonio Ferrara

Anni fa partecipai a corsi di biodanza e shamanesimo in cui si lavorò sul divino maschile e femminile, Shiva, Shakty, e la terribile Dea Kalì. Detta così par difficile, in effetti non fu una passeggiata, ma tantissimo mi rimase impresso e in particolare una consapevolezza mi guida da allora, è come la parte dietro del mio vestito, sempre attaccata: scoprii che esiste uno Spazio Sacro, il divino maschile, il divino femminile, un nucleo inviolabile di cui può partecipare solo il maschile, o solo il femminile, e in cui non bisogna desiderare di mettere piede se non è il nostro spazio.

È roba nostra, è roba loro. Uno Spazio Sacro. La casa del maschile, la casa del femminile. Punto.

Puoi arrivare fino al bordo se vuoi, accompagnare chi deve entrare, attenderlo all’uscita, ma avanti non ci vai se non è casa tua, ed è giusto così. A volte m’è capitato di provare a spiegarlo, mai m’era capitato di trovare questo concetto espresso in maniera semplice e precisa in un racconto di uso quotidiano. Questo è “Il ragazzo e la tempesta”, un racconto in cui nettamente si percepisce lo Spazio Sacro del Maschile e del Femminile, in cui oggetto della narrazione e dell’esplorazione è quello maschile. Perché maschile?

Perché l’ha scritto Antonio Ferrara. L’avessi scritto io, l’oggetto della narrazione sarebbe stato lo Spazio Sacro Femminile. Chiaro.

Dunque vedevo nitidamente, come un’immagine di terra dall’alto, chiara, attraversata da una forma di treccia a due capi che scorreva come un fiume, terra che si intrecciava amorevolmente, due filoni chiaramente distinti, abbracciati. Il maschile e il femminile della famiglia di cui si narra nel racconto: padre-figlio, madre-figlia.

Seguire i passi del figlio che nel libro segue il padre, e il padre che torna verso di lui, è partecipare di un mistero, il mistero del maschile e della sua trasmissione di saperi. Non lo voglio dire in altri modi perché non spetta a me, appunto, dirlo. Potete parteciparne, leggendo. È molto, molto ben delineata lì dentro l’energia della madre e del padre. Ne è delineata la differenza, la peculiarità energetica del femminile e del maschile, la diversità, la bellezza. Non una sopraffà l’altra. Ognuna si muove in relazione con l’ altra.

Lo sguardo è fuori, è all’andare, al sole, alla montagna, all’orizzonte, all’avventura.

La figura del padre è chiave, come girando nella toppa apre e chiude il racconto, i passaggi tra un luogo e un altro. Appare per evocazione, come uscito dalle nebbie compare denso, forte, deciso e ingombrante. Nello spazio-tempo della sua permanenza nella storia la riempie tutta, di forza, di silenzi immensi e immensi voli. Sguardi duri, improvvise risate, parole come schiaffi.

Appare. Scompare. È come se, evocato dalle nebbie in cui è disperso, apparisse per contrappeso molto denso. E noi dall’altra parte della bilancia del mondo, diventiamo di nebbia per lasciarlo apparire.

In qualche modo non sono della stessa densità le figure dentro al libro, lo stare insieme è quasi uno stare contro le leggi di natura, ed avviene per scivolamento, uno scivola verso l’altro perché evocato. Come nell’asse dell’altalena a dondolo, che nel parco va su e giù, per stare nello stesso spazio-tempo uno sale l’altro scende, uno arriva l’altro va, rincorrendosi. Uno si fa pesante l’altro leggero. Per un attimo nel movimento tra l’altalena e i mondi ci si trova allineati, questo racconto si svolge in quell’attimo, lo dilata, lo rende lungo il tempo necessario al completamento di ciò che era rimasto spezzato, come incastrato. Lo porta avanti.

Poi tutto torna alla consueta densità, spazio, tempo, ognuno al suo mondo. Clack.

Di dove sia tornato questo padre non si capisce, in quel luogo però ci accompagna.

E tutto si completa.

Il cerchio si chiude.

*

“Il ragazzo e la tempesta”, Antonio Ferrara, Rizzoli Editore

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